Ciao mondo!!

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Deliri su Avatar

Fruit scrive:
*si vabè
*sarà che eravamo in 3 fila..
*a me nn è che abbia detto molto
*cioè
 Sir Francis Drake scrive:
*la trama fa cagare però
Fruit scrive:
*validissimo x alcune cose
*tipo quando fa il videolog
*con le scritte in sovraimpressione
Sir Francis Drake scrive:
*o i vetri. i vetri sono pazzeschi
Fruit scrive:
*per gli effetti di ambient surround (cenere, cazzilli illuminanti etc etc)
*nn so neanche se si dica cos’ ma suona benissimo
*…
*eheh
Sir Francis Drake scrive:
*stavo per fischiare alla tua conoscenza lessicale
*fischiare d’ammirazione
*diamolo per buono
Fruit scrive:
*ahah
Sir Francis Drake scrive:
*una cosa mi è piaciuta che non avevo notato la prima volta
*questa idea del pianeta col cervello. 
Fruit scrive:
*mh.. già
*molto gaia
Sir Francis Drake scrive:
*Cioè il fatto che il pianeta è Dio capisci
Fruit scrive:
*nel senso di pianeta vivo e cosciente
Sir Francis Drake scrive:
*ma è un dio perfettamente razionale
Fruit scrive:
*si si lo capisco molto bene
Sir Francis Drake scrive:
*e plausibile
Fruit scrive:
*e mi piace molto come idea
*meglio del barbuto che sovrasta tutto
Sir Francis Drake scrive:
*e questa è la grande differenza tra pandora e la terra
*che pandora che ha un cervello alla fine si salva da sola
*la Terra la distruggeremo indisturbati
*perché non ha l’intelligenza collettiva e i filetti luminosi eccetera eccetera
*ma sì è molto meglio dell’Onnipotente
*così onnipotente che lascia fare
Fruit scrive:
*ahahah
Sir Francis Drake scrive:
*perché se tutto puoi tanto vale non far nulla
Fruit scrive:
*beh
*nn esattamente
*tanto vale provare tutto
*a sto punto
Sir Francis Drake scrive:
*no perché sei anche onnisciente e sai già come va a finire
*e come rivedere per la centesima volta lo stesso film
*capiscilo povero Dio, chi glielo fa fare
*no no molto meglio il pianeta con l’intelligenza comunitaria e socialista
Fruit scrive:
*ahha
Sir Francis Drake scrive:
*ah non c’è niente da ridere, questo è un postulato: se Dio c’è, si annoia a morte.
*anche se ho una critica da fare a James Cameron a questo proposito
*ce lo scaramella per un’ora con sta cosa dei capelli, the bond, sentire gli animali, great connection to Nature ecc
*e poi quando quei due sono lì che si fanno allegramente sotto l’albero al neon
Fruit scrive:
*cosa?
Sir Francis Drake scrive:
*non gli fa intrecciare i capelli nell’estasi suprema della comunione degli spiriti? 
*li fa scopare normale normale
*?
*non va non va.
*quelli per essere credibili al posto del pisello devono avere le fibre ottiche
Fruit scrive:
*ecco 
Sir Francis Drake scrive:
*ecco
Fruit scrive:
*il punto è che quella scena in effetti c’era
Francis Drake     scrive:
*in effetti lei quella del siamo legati per sempre gliela dice
*quella scena non la doveva tagliare
Fruit scrive:
*già
Sir Francis Drake scrive:
*a parte che poteva realizzare il primo porno non porno della storia
Fruit scrive:
*ahha
*in effetti forse non se l’è sentita di sobbarcarsi un peso così gravoso
Sir Francis Drake scrive:
*ma poi fa scadere tutto il discorso
*povero lui
*è in grado di scrivere una battuta come
*"voglio che tu mi faccia un ritratto con questo addosso. Con solo questo addosso"
*e poi girare un quarto d’ora di Kate Winslet nuda
Fruit scrive:
*ehe
Sir Francis Drake scrive:
*ma non è in grado di illuminare quattro trecce di fibra ottica e cambiare per sempre il concetto di scena Hard
*tanto più che capisci, dato il fatto che stavano sotto l’alberello al neon rosa ed erano in connessione con l’intero pianeta-cervello-dio-ecosistema perfetto
*sarebbe stata una scopata di proporzioni globali, in mondovisione e mondopartecipazione, perché su Pandora pianeta comunista anche il sesso è in sharing.
Fruit scrive:
*ahah
Sir Francis Drake scrive:
*Sarebbe diventata la bibbia dei New Age
Fruit scrive:
*già già
*ecco perchè sono tutti sereni
*ogniqualvolta qualcuno scopa con qualcun’alto
Sir Francis Drake scrive:
*tutto il pianeta ha un orgasmo
Fruit scrive:
*automaticamente tutto il pianetae i suoi abitanti godono
*pazzesco
*considera la popolazione + la fauna
*praticamente uno si sveglia col sorriso
*perenne
*ahah
*l’unico pianeta dove le madri dicono ai bambini di mettere qualcosa nelle prese
 Sir Francis Drake scrive:
*ahahaha
*e dove quando porti a spasso il cane
*invece di aspettare al gelo che espleti i suoi bisogni
*ti ci attacchi coi capelli e pensi caga!
*e in 20 secondi torni a casa
Fruit scrive:
*ahahahahahahahahahahah
*vero vero
*ahahah
*pensa a come si potrebbe copiare
*ti fai una extension a lla treccia e ti caghi vicino a qualcuno
*ti connetti e praticamente scrivete in simultanea le risposte
 Sir Francis Drake scrive:
*se per caso capiti su due che scopano cadi in preda alla passione ed è finita
*finisce che ti vengono a cercare
*e se la prof resta connessa io cripto il segnale
*si potrà no?
*che cavolo con un network così avanzato!
Fruit scrive:
*ahah
*eppoi quella specie di draghetto che gira
*con le ali a cerchio
*il GIROCOTTERO (nome scientifico da me attribuito)
Sir Francis Drake  scrive:
* il girocottero sarebbe stato la croce di Darwin
Fruit scrive:
*ahahahahahahahhahahaahhahahahahahahhah
  Sir Francis Drake scrive:
*come sia sopravvissuto è un mistero
*lì appeso a quel coso che gira
Fruit scrive:
*beh una cosa è certa
*dev’essere immune alle cefalee e ai capogiri sennò è veramente un mistero
*o sbocca la madonna sempre
*e cmq
Sir Francis Drake scrive:
*ecco come è sopravvissuto
*fa schifo a tutti
*nessuno si avvicina
Fruit scrive:
*nn ho capito perchè i nav’i sono gli unici esseri a 4 zampe del pianeta
*gli altri animali ne han tutte 6
Sir Francis Drake scrive:
*se gli alberi possono essere verdi in pianeta senza ossigeno, gli indigeni possono avere quattro arti e vestirsi come il grande capo Powathan della costa della Virginia.
Fruit scrive:
*ahah
*cmq
*commenti e diagazioni a parte
*secondo me rimane una figata di film
*a me ha fatto sognare
*pensare
*e mi ha fatto passare 2.30 ore senza che mi preoccupassi di che ora fosse
*(difficilmente mi capita coi film così lunghi)
*veramente un gran bel lavoro
*aspetto il seguito
Sir Francis Drake scrive:
*già due in cantiere
*vai sereno
*mi è piaciuto molto per l’ambientazione
*e perché sì, ho passato tre giorni desiderando di avere la coda
Fruit scrive:
*e quel corpo
*parliamone
*che figata
*blu striato
*pazzesco
*con il led nella pelle
*fare i mega rave tutti abbracciati con la terra che pulsa
Sir Francis Drake scrive:
Fruit scrive:
*si si non o metto in dubbio
*ma l’ambientazione
*…
Sir Francis Drake scrive:
*l’ambientazione è meravigliosa concordo
*e non ti è venuta voglia di scalare le Hallelujah mountains
*?
Fruit scrive:
*si..
*lo confesso
*cmq
*secondo te quanti ne muoiono x andare a cercare il proprio pterodattilo che cercherà di ucciderti a sua volta?
Sir Francis Drake scrive:
*bella quella. Se ti ama prova ad ammazzarti, altrimenti ti ignora.
*svariati comunque. Ma credo ne possa valere la pena
*perlomeno. Io ci avrei provato.
*al limite invece di fare MOLTI voli, ne fai solo UNO
*sapendo che il Pianeta metterà in sharing il tuo tragico (ma ecosostenibile) schianto al suolo.
*è un ottimo sistema di controllo demografico, aggiungerei.
Fruit scrive:
*eheh
*rimangono i colori improbabili
Sir Francis Drake scrive:
*che possiamo imputare al daltonismo di chi ha sviluppato la pellicola master
*oppure al fatto che dopo una vita di LSD James non concepisce più le tinte pastello
*questa forse mi piace di più
*o ancora meglio. In realtà lo sviluppatore non è daltonico bensì è il pusher di James, che ha inserito questo messaggio subliminale cromatico per spingere la gente verso gli acidi e aumentare le vendite.
Fruit scrive:
*tempi duri x l’lsd
*Il tutto col tacito consenso della casa bianca, che oltre a vedere di buon occhio in questo periodo ogni colore di pelle che non sia il bianco, è favorevole a stornare l’attenzione degli elettori dal conflitto mediorientale, anche ricorrendo a stupefacenti.
*Ed ecco che abbiamo riportato il prodotto hollywoodiano a quello che realmente è: panem, circensem et propaganda.
Fruit scrive:
*e allora potevano riproporci il gladiatore…
Sir Francis Drake scrive:
*no perché ridely scott è repubblicano
*e poi di quello si è già appropriata la Mulino Bianco, che vende Pan di Stelle sfruttando la colonna sonora di un massacro. 
*bom torno a tradurre lentamente tedesco.
*stato bello svarionare con te!
Fruit scrive:
*io tornerò alle mie foto
*ne sto caricando sul flickr
*poi passerò a mettere a posto quelle sulla neve
*promesso che una del monviso te la carico
Sir Francis Drake scrive:
*daaaaanke shoconladieresin
*ciax
Fruit scrive:
*cia

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Si prendono strade ferrate e si va

Devo smetterla di
ripetermi che sono a Parigi.

Il fatto è che continuo
a dimenticarmelo, proprio come se non fosse vero, proprio come se le
strade per cui da cinque giorni cammino fossero un quartiere finora
sconosciuto della mia Genova. Come se piazza De Ferrari fosse ad un
tiro di metropolitana da Boulevard du Montparnasse, e bastasse
guardare fuori dalla finestra per vedere il Bigo. Come al solito.

Invece alzo gli occhi e
vedo la Tour Eiffel, illuminata e luccicante, fuori del mio abbaino.

No. C’è qualcosa che non
va, Francesco. Sei a Parigi. Sei a Parigi.

Ma ogni volta è solo un
attimo di consapevolezza, che subito scivola nel turbine di cose da
fare, di documenti da presentare per l’università, per il conto in
banca, per l’abbonamento della metropolitana. Scivola via per essere
confusa, offuscata ed infine abilmente rimossa e stoccata in chissà
quale anfratto della mia mente. Un gran bello scherzo davvero.

30 Agosto 2009

C’è
un grande via vai per le scale di casa A, che vanamente sto tentando,
se Dio vuole per l’ultima volta quest’anno, di far pulire alla mia
squadra di ragazzi. Tutti che portano su e giù le valigie, liberano
i letti e le stanze di Monteleco e si preparano a tornare a casa.
Cosa significhi poi casa per questi ragazzi di cui ci occupiamo per
quattro settimane lungo tutto agosto, è da vedere. Casa. Si torna a
casa, e anch’io ritorno alla mia, per niente felice e piuttosto
spaventato. Sono giorni ormai che, complice la stanchezza, sono
sempre sull’orlo delle lacrime. Spazzo il pavimento, e piango. Piango
perché mi aspettano due settimane a casa, le ultime due per me, che
sto per partire per la Francia, e le ultime due con me delle persone
a cui voglio bene, e che mi accingo a lasciare qui. Piango perché ho
paura. Piango perché mi dispiace. Piango perché mi sento in colpa.
Ma soprattutto piango perché ho scelto, e per me scegliere è la
cosa più difficile al mondo. Che si parli di strade, idee, ragazze,
amici, io detesto e temo sopra ogni cosa dovermi definire in una
posizione, e mantenerla. Quanto più facile, e meno pericoloso per i
sentimenti di tutti, è restare nel seno della possibilità. Finché
il mondo è fatto di opzioni nessuno può farsi male, ma solo
immaginare di essere felice. E se fantasticare sulla felicità non è
felicità vera, almeno niente e nessuno potrà ferirci. È un buon
compromesso. Ci si può abitare dentro, come in una personale sfera
di diamante -trasparente, perfetta, infrangibile- e dal suo interno
guardare l’universo, sicuri che niente ci possa colpire. Ma separati
dalla realtà.

Io
non ci credevo, che non si potesse vivere così. Per anni sono stato
fermamente convinto -e una parte di me lo è ancora, e lo sarà
sempre- che dentro quel comodo e cristallino guscio di possibilità
io avessi trovato la condizione ideale. Poi, lentamente, ho dovuto
rendermi conto che la mia convinzione altro non era che un’appetitosa
menzogna che mi servivo da solo, tutti i giorni, per consolarmi e
dimenticare le mie debolezze. E mi sono costretto a guardare la
verità, cioè che nessuna realtà è fatta di opzioni, di
possibilità. No, la realtà in cui viviamo è fatta di strade a
scorrimento veloce e d’incroci; quando scatta il verde del semaforo,
allora bisogna scegliere una direzione e partire. Altrimenti la gente
dietro si mette a suonare. O peggio, si rischia d’essere investiti.
Le possibilità sono che la vita ci mette davanti sono meravigliose a
vedersi, ma effimere come la rugiada del mattino, che scompare col
primo sole. Dilatarle all’infinito significa vivere fuori del mondo,
in un presente che non è presente, ma un’offuscata fantasia di un
futuro che non si realizzerà mai. E quel che è peggio: non si
realizzerà mai perché noi non permettiamo che lo faccia!

Tanto
più che prima o poi il presente arriva da solo, e quando ti investe
con tutta la sua devastante
realtà,
allora delle scelte sei costretto a farle. Con tanti saluti alla tua
tanto amata libertà, che pretendevi di proteggere procrastinando
all’infinito il momento della scelta.

E
allora, che fare? Rientrare -con enorme fatica- nel mondo dei vivi, e
scegliere.

Chi
vuoi essere?

Spazzo
il pavimento e piango, perché crescere mi costa tante lacrime. Fuori
cominciano ad arrivare i primi genitori, che vagano nel cortile pieno
di foglie (è una sciagura, questa ruggine degli ippocastani. A metà
agosto sembra già pieno autunno) davanti alla chiesa dove tra poco
Fully dirà l’ultima messa della stagione. Volano le foglie. Ho
addosso una maglietta verde prato con scritto sopra -in inglese
maccheronico- “the people is the power”: certamente è così.
Certamente, se Fullyno e questo posto mi hanno insegnato qualcosa, è
che il carburante per vivere sono le altre persone. Vado in chiesa e
prego, perché le persone che ho così paura di lasciare qua possano
essere energia per intraprendere il cammino che mi sono scelto.
Trampolino di lancio per chi parte, e materasso per l’atterraggio di
chi torna. Ciò che mi sono sforzato d’essere per gli altri, ma che
davvero non ho la forza di credere che gli altri possano essere per
me.

8 Settembre 2009

Bergeggi:
“l’ultima giornata al mare tutti insieme”. Che meraviglia
ragazzi, che bello…

Non
mi ricordavo che in Liguria esistessero spiagge di tale bellezza, ma
negli ultimi giorni ho dovuto ricredermi. Il golfo del Tigullio nel
weekend e poi questo piccolo paradiso a un tiro di schioppo da casa.
Non ti accorgi mai di quanto sia bella casa tua finché non stai per
andartene, temo. I fregi dei palazzi, nel centro storico, non hanno
mai colpito la mia retina con tale violenza come in questi giorni, né
mi hanno mai impressionato tanto i gabbiani che volano vorticando di
notte, sul Bigo, come falene attratte irresistibilmente dalla luce
d’un lampadario (solo che nel caso del Bigo è tutto sottosopra).
Tutto quel che guardo è prezioso. E tutto ciò che faccio, è “per
l’ultima volta”. Anche se non sono io a pensarlo, c’è sempre
qualcuno che me lo ricorda, che me lo dice, che lo sottolinea con un
tratto di matita rossa. Ma andate tutti a farvi una lunga passeggiata
sul molo corto, come diceva Guybrush Threepwood. Cosa vuol dire
ultima volta? E perché dovrebbe esserlo?

Mi
sento preso tra l’incudine ed il martello: tutti vogliono vedermi
un’ultima volta, tutti famiglia compresa fanno a brani il mio tempo
cercando di accaparrarsene un pezzo ancora. Io in realtà, vorrei
solo stare a guardare i gabbiani ed le chiavi di volta degli archi
murati davanti a San Siro. Ma li adoro perché insistono, perché
come di mio solito, io ho paura di voler bene troppo, e quindi tendo
a svicolare. Che bastardo. Vi chiedo scusa, a tutti, se sono
sfuggente. Ancora una volta, è per non piangere. Mi paro dietro il
mio guscio, facendo finta che niente stia cambiando, cercando di non
soffrire. Grazie per avermi costretto (ma Ste, ti prego, la prossima
volta che vuoi farmi ubriacare, non sfidarmi a Trivial Pursuit!).
Detto questo, NON è affatto l’ultima volta. E, se voi non mollate
me, tranquilli, io non mollo voi neanche morto.

15 Settembre 2009,
Martedì. Ore 17:45.

Il
tempo passa, gli amici partono, io anche, infine. È impressionante
il numero di persone che se ne va quest’anno, ed è consolante sapere
che se io rimanessi a casa, mi sentirei solo tanto quanto so che mi
sentirò a Parigi, la grande città. Con qualche rilevantissima
eccezione, i miei migliori amici se ne vanno da Genova, preda anche
loro di questa mania di andarsene che colpisce la nostra generazione,
mania che ormai ho imparato a riconoscere, e che ha molto a che fare
col panico (mi si può credere, io sono nel numero di chi se ne va,
un contagiato d’annata da questo morbo epidemico. Denominazione
d’origine controllata). In fondo, mi mancherebbero allo stesso modo,
sia restando a casa, che andando via.

Si
parte.

Il
treno per Milano lo conosco, è lercio come al solito. E quel che è
peggio, sono lerci i finestrini, tanto da rendere opaca e lontana
l’immagine dei miei fratelli e della mia ragazza sulla banchina, a
salutare. Mia mamma non è voluta venire sul binario, e mio padre è
rimasto con lei. Salutano attraverso lo sporco del vetro. Sono solo a
due metri di distanza, ma sono già irraggiungibili. Mi sforzo di
sorridere, ma riesco a produrre solo una smorfia di quelle che se mi
potessi guardare allo specchio, mi verrebbero le convulsioni da tanto
ridere. Spegnete la luce, vi prego, e svegliatemi domani mattina.

Ma
no.

Il
cambio è a Milano, e il mio secondo treno, quello per la Ville
Lumière, parte alle 23:35. Non ci sarà sonno per me, almeno per un
po’. Fortuna che, alla stazione centrale, ad aspettarmi c’è Nicola.
Meraviglioso Nicola. Non so se mi riesce di dirgli quanto importante
sia per me avere la possibilità di poter passare quelle ore di limbo
con un amico vero. Non so se si rende conto che se lui non fosse lì
a tenermi compagnia, semplicemente a chiacchierare, io girerei sui
tacchi e tornerei a casa. In fondo lui ha l’anima del
routard,
e del mio viaggio vede solo la faccia lucida. Io invece oggi vedo
solo quella opaca, com’era logico aspettarsi da me.

A
Milano fa un gran freddo, accidenti: io ho ai piedi i sandali,
irrinunciabili Birkenstock, uniche vere calzature adatte ai miei
piedi, laddove tutte le altre scarpe sono prigioni. Maledetto
l’inventore delle scarpe. E maledetto questo freddo. Io senza
sandali, proprio non potevo partire.

Finalmente
arriva il mio treno, ed io lascio andare Nicola alla sua metro, alla
sua Bocconi, alla sua vita intensa per lanciarmi nella mia. Aspetta
però. C’è ancora tutta la notte, in uno scompartimento grande come
il mio bagno, con altre cinque persone! Nell’ordine: una signora di
mezza età, molto parigina, assai schifata dalla Trenitalia (come
darle torto); due giovani giapponesi in tour per l’Europa, se non
avessero parlato tutta la notte li avrei amati assai di più; una
donna africana, bella ma molto puzzolente e dalla grandissima valigia
(la mia è ingombrante, non dico di no, ma la sua! Altro che
pentolini per il cappuccino deve averci messo!); una bella ragazza
francese, sola, che tornava da una vacanza nel Nord Italia. Bella
davvero.

Che
inizio. Io, il treno, il nuovo numero di Rat-Man (sia lodato Leo
Ortolani
nunc et semper, in omnia saecula saeculorum).

Buonanotte,
Italia.

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“Si prendono strade e si va”

A volte vorremmo avere la sfera di cristallo. Tutti a volte.
Io ne ho una sapete, solo che non è quella piccola in cui si vede il futuro. No è una grande, e io ci sono dentro. E’ infrangibile perché in realtà è diamante, e io ci sono dentro e guardo fuori senza poter uscire. Vedo nitidamente, perché è pulita come uno specchio d’acqua montano e piatto come il mare al tramonto, quando non c’è vento. Solo che non posso uscire. E quel che è peggio, gli altri non possono entrare.
E sapete cosa? Qualcuno, sono certo, la tiene sulle ginocchia, mi tiene sulle ginocchia, o su un tavolino con la tovaglia di pizzo, e ci legge dentro il futuro. E dentro vede me. Un futuro, il mio futuro si muove dentro la mia sfera di diamante: curioso che io sia l’unico che non può vederlo.

C’è vento ancora una volta nella mia foresta, e ancora una volta soffia freddo sul mio cuore in inverno.

Se qualcuno legge qualcosa, se qualcuno è fuori e vede, per favore, fatemi segno.

Ve ne sarò grato.

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Quando i pezzi non coincidono…

Il giorno che avrò finito questo puzzle che è la mia vita, quel giorno sarò morto.
 
Ma per quanto io riconosca tutta la straordinaria bellezza di comporre ogni giorno un pezzetto di un’immagine che non posso cogliere, proprio perché non c’è fino all’ultimo giorno, perché sono anche io che la disegno, mentre incastro ogni tassello al suo posto,con pazienza, ogni minuto ogni secondo della mia esistenza; per quanto lo riconosca e lo sappia, be’, è frustrante al massimo quando proprio non riesci ad attaccare niente di nuovo.
Costruisci parti di figure isolate, che non hanno senso alcuno, non hanno nulla in comune col resto. E le metti da parte, chissà dove vanno. Oppure forse hai sbagliato a montarle? forse non trovi il pezzo che cerchi perché lo hai già messo da un’altra parte, ma quello non è il suo posto. Pezzo malandrino. Ma qual è quello da spostare? Sono tutti maledettamente uguali!
 
E metti in crisi anche le cose belle che hai costruito in passato, solo perché non vedi un futuro, solo perché non hai un presente.
 
Un pezzo del puzzle.
 
 
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E’ un vortice di cui non vedo il fondo

E ora?

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“Siamo gli attori ingenui sulla scena di un palcoscenico misterioso e immenso”

Camminava al limitare della foresta,
volgendo lo sguardo nel profondo degli alberi. Ne cercava l’essenza,
la natura: era risolutamente intenzionato a comprenderla prima di
entrarvi.
L’alba illuminava di sbieco le conifere
fitte e brune, e notò alcuni bucaneve nel prato, pronti a
ricevere il sole che sapevano ormai imminente.
Si fermò di fronte ad un grande
abete e rimase a fissarlo: sapeva che era tempo di inoltrarsi nel
bosco. Non aveva che quel giorno e bisognava sfruttarlo bene. Si
volse un’ultima volta a guardare il profilo nero delle montagne
all’orizzonte, nitido nel cielo mattutino, e la fredda distesa
davanti a sé.
Poi si sistemò lo zaino sulle
spalle e si incamminò nel folto degli alberi. Già dopo
pochi passi sentì che l’aria si faceva profumata e pungente,
in maniera decisamente piacevole: risvegliava i suoi sensi. Camminava
su un tappeto di vecchi aghi di pino coperti di brina della notte,
facendoli scricchiolare, e godeva del silenzio e della penombra. Non
era affatto sicuro di dove lo conducesse la traccia che stava
percorrendo, ma aveva fiducia che presto o tardi avrebbe trovato quel
che stava cercando. Col passare del tempo il bosco si riempiva di
vita: uccelli, insetti e animali (uditi o solo intuiti nel
sottobosco, più che incontrati) si svegliavano col giorno.
Tante domande gli turbinavano fra i
pensieri.
Si fece largo in un cespuglio di
ginepro, pungendosi le dita, e si trovò presso un corso
d’acqua limpido e gorgogliante. Né ruscello né
torrente, rallegrava con la sua canzone quella striscia di bosco.
Oltre la foresta continuava, ma si intuiva che gli alberi si facevano
un po’ più radi; qualcuno aveva costruito un guado di pietre
piatte poco lontano da dove si trovava. Il sentiero proseguiva
dall’altro lato verso quella che aveva tutta l’aria di essere una
radura. Pieno di nuova sicurezza, lo seguì. La radura era più
o meno esagonale e non molto grande; sul lato occidentale c’era una
collinetta. Sulla cima, una tenda. Intorno, silenzio. I resti del
fuoco della sera precedente erano ben visibili ai piedi del piccolo
rialzo. Diede uno sguardo alla scena, sorrise, e dopo aver appoggiato
il suo zaino contro un albero, ci si sedette sopra. Aspettava col
gusto di chi sa godere l’attesa, rivolto verso la tenda blu e verde,
senza tuttavia guardarla davvero. Se guardava qualcosa, certamente
non era nulla di interno al suo campo visivo.

Dopo poco (quanto non avrebbe saputo
dirlo), la cerniera fu abbassata e qualcuno uscì dalla tenda
stiracchiandosi e guardandosi in giro con occhi ancora carichi di
sonno. Non lo vide subito. Portava una T-shirt piuttosto lisa e un
paio di jeans scoloriti: faceva venire freddo solo a guardarlo, ma
dal canto suo sembrava non preoccuparsene affatto. Sebbene non fosse
cambiato per niente, in qualche modo gli parve diverso.
“Cosa ci fai qua?” chiese con voce
incerta quando l’ebbe visto dall’altra parte del prato, accovacciato
sullo zaino.
“Ti aspettavo” rispose l’altro
mentre si alzava e cominciava a frugare nelle profondità
sferraglianti dello zaino. “Accendi il fuoco che si fa colazione!”
Tra il baldanzoso e il perplesso,
l’altro afferrò l’acciarino e si diede da fare intorno ai
resti di legna semi carbonizzata della sera prima. Quando fu riuscito
a suscitare una fiammella, la alimentò con delle foglie secche
e qualche ramoscello, poi sollevò la testa giusto in tempo per
vedere l’altro tornare dal ruscello con in mano una caffettiera, che
stava stringendo. Presto l’odore del caffè riempì la
radura, strano ed effimero profumo, una novità per gli alberi
che li circondavano. Lo bevvero piano.
“Bello qui…C’è silenzio.
Come ti trovi?”
“Non c’è male, non male
davvero”, rispose, guardandosi le mani “Ho tutto quel che posso
desiderare acqua in abbondanza e luce quanto basta, qualche fungo e
tra poco cespugli interi di lamponi! Poi le trote del fiume, qualcuna
quando ho fortuna. Gli uccelli mi tengono compagnia e i daini non
hanno quasi più paura di me: si sono fatti ardimentosi! Senza
contare che ho a disposizione un bel prato morbido su cui coricarmi:
le rocce sono pochissime, ci hai fatto caso? La migliore moquette che
potessi sognare! Non posso proprio lamentarmi”.
“Trote? Non dirmi che hai imparato a
pescare!”
“Sì, con la lenza. Se hai
voglia stamattina ti faccio vedere: c’è un buon posto poco più
avanti lungo il torrente”.
“E a pranzo, trota alla brace! Ho già
l’acquolina in bocca!”
“Vedremo…non dire gatto finché
non ce l’hai nel sacco!” rispose l’altro poco fiducioso.
“Non dire pesce finché di
prenderlo non ti riesce! Oppure…non dire trota finché sul
tuo spiedo non ruota!” chiosò sornione l’amico.
Risero di gusto finendo quanto restava
del caffè.
“Forza allora! Diamoci una mossa, che
se no altro che spiedo!” disse da dentro la tenda, dove aveva
ricacciato la testa. Ne riemerse con due rocchetti di nylon da pesca,
un barattolo pieno di quella che sembrava insalata vecchia e qualche
amo in mano. “Questo portalo tu per piacere” disse allungando il
barattolo all’altro, che glielo prese dalle mani: era perplesso ed
incuriosito. Dopo averlo scrutato per bene, chiese ghignando:
“Interessante. Studi la decomposizione dei vegetali adesso?”
“Ma no! Ci tengo i lombrichi! Ho
provato a tenerli in un barattolo di terra, ma poi faccio fatica a
trovarli! E in un barattolo vuoto, mi sembrava di tenerli in
prigione…Così ho risolto con le foglie! Diciamo che ho messo
un po’ d’arredamento…”
“Ah. Capisco. In sostanza è
come se avessi messo il parquet per terra lungo il miglio verde, e
incollato una carta da parati luminosa ai muri! Tanto il loro destino
è segnato!” Che buffo, pensava.
“Lo so, ma mi fa sentire molto
meglio”.
“Mah!”
Frattanto si erano incamminati nel
bosco lungo il fiume, e dopo non molto giunsero in un punto dove il
fondale si abbassava formando una pozza profonda. Si sedettero su una
gran pietra sul bordo dell’acqua e prepararono le lenze, legandole
agli ami. I lombrichi dal canto loro non dimostrarono emozione
alcuna: nessuna nostalgia del barattolo mentre venivano estratti dal
loro loft di foglie putride. Al contrario, affrontarono l’amo
con grande dignità. Trafitti per riempire le pance di trote e
uomini, andavano incontro al loro destino consapevoli dell’utilità
sociale del loro gesto. O almeno, così si sarebbe detto. Forse
non erano solo vermi insensibili. Vai un po’ a sapere cosa passa per
la testa di un verme nel momento estremo del sacrificio.
Fu una mattinata di lezioni di pesca e
risate. Era tempo che non stavano così piacevolmente insieme.
La pesca non fu certo abbondante (solo una piccola trota a testa), ma
sufficiente a galvanizzare i loro animi. Non capita a tutti di
prendere un pesce al primo tentativo. Fortuna del principiante?

Non esiste pasto, per quanto frugale
sia, più gustoso di quello che ci si è procacciati con
le proprie mani: quei pesci avevano il sapore della soddisfazione.
Dopo pranzo si stesero al sole sul fianco della collinetta; le nuvole
correvano nel cielo incorniciato dagli alberi. Per un poco, nessuno
disse nulla. Uno masticava assorto un filo d’erba, l’altro giocava ad
intagliare col coltellino svizzero un pezzetto di legno che aveva
raccolto da terra.
“E dimmi, come vanno le cose a casa?”
“Come vuoi che vadano, sempre uguali.
Sempre noiose in maniera affascinante. Spuntano le foglie sugli
alberi, i nostri genitori invecchiano, la destra vince le elezioni e
lo fa in maniera preoccupante, io aspetto le rondini con impazienza”.
“Davvero?…E perché le
rondini scusa?”
“Perché prima arrivano prima
se ne andranno: non vedo l’ora di finire e di potermene andare un po’
anche io. Rimandare, quello mi snerva. Come se non fosse già
abbastanza difficile prendere la decisione di partire!”
“Mi domando se sia peggio decidere di
partire, o decidere di ritornare…”
“Credo che siano due cose simili,
dipende da che genere di persona sei. In ogni caso, come al solito,
la difficoltà sta nel guardarsi allo specchio e assumersi la
responsabilità di mettersi alla prova”.“Nell’uscire dalla situazione
comoda”.

“Qualcuno ci diceva sempre che si
cresce solo risolvendo problemi…forse non intendeva
questi
problemi, ma mai come oggi le do ragione. E mi sento già un
po’ cresciuto.”

“E quanti problemi hai risolto?”
“Risolto? Nessuno temo! Ma almeno, ho
smesso di pensare di non poterci provare!”. Sorrise, più con
gli occhi che con la bocca.

Pochissime parole finirono al vento,
quel pomeriggio. Molte le cose da dire, grande il piacere
d’ascoltare.

Verso le cinque, caricatosi lo zaino
sulle spalle ancora una volta, si incamminarono insieme verso il
limitare della foresta. “Mi piace molto come ti sei sistemato”,
gli disse dopo un po’, “non avrei potuto chiedere di meglio per
te”.
“Tra pochi giorni il lago sarà
completamente scongelato. Allora forse si potrà attraversare
in barca” disse l’altro con voce pensierosa. Per un attimo un’ombra
sembrò attraversare i suoi occhi. Ma fu meno di un battito di
ciglia. Si fermarono sul bordo del bosco a guardare la distesa
d’acqua ghiacciata, illuminata dal sole che cominciava ad abbassarsi
sull’orizzonte. Era un bello spettacolo. Il sentiero correva lungo la
sponda orientale, fiancheggiata dai giunchi.
Si abbracciarono. “In tal caso, ti
aspetterò dall’altra parte, amico mio!” disse levando lo
sguardo. Poi si volse e si incamminò di nuovo, questa volta
con il sole negli occhi.

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Diving into past

Sono tornato a casa. Sono tornato per qualche giorno nel mio vecchio quartiere, nel mio vecchio appartamento dove oggi vive mia zia. Sono tornato in quel di via Savelli 37/43. Motivo ufficiale: dogsitting alla vecchia Wendy, quella simpatica della cagnetta della zia, che se n’è andata a fare un corso di aggiornamento fuori città. Io, il cane, e il gatto. Ho ridormito in camera mia, ho riguardato dalla mia finestra. Mi sono fatto da mangiare in quella cucina dove mi nascondevo da piccolo. Ho staccato Wendy a forza dal braghettone dell’arcata d’ingresso, del mio ingresso: quella peste si mangia il muro! Ho incontrato per strada persone che non vedevo da quasi otto anni. Mi sono fermato a guardare la mia scuola elementare e mi sono anche intrufolato dentro, in realtà, alla ricerca di ricordi.
Molte cose sono cambiate, molte sono tutto sommato rimaste uguali: il vecchio autobus numero 84 continua imperterrito il suo giro di sempre, ma non passa più davanti agli stessi negozi.

Sono tornato a casa per accorgermi, non senza dispiacere, che non è più casa mia. Nessuna nostalgia di quei luoghi, nessun rimpianto, nulla di lasciato indietro. Niente di niente. Intendiamoci: ho avuto moltissimo dalla vita negli anni trascorsi in quella casa, con le persone a cui ho voluto bene, ma sono stato così a disagio negli ultimi tempi che vivevamo lì che tutto il resto per me sbiadisce. Lo so che c’è stato dell’altro, ma dev’essere proprio in fondo al pozzo, perché a guardar giù ne ho visto solo l’ombra. Mi sono sentito estraneo, indifferente, e felice di esserlo. Perché per la prima volta mi sento lontano da quei tempi, perché la catena si è allentata e forse un giorno si sgancerà. Perché una volta di più mi sono accorto dove voglio stare, e soprattutto come voglio starci.

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Lucidatura

 

Avete presente le mele.

Abbiamo giocato tutti a lucidarle.

Restano sempre le stesse identiche dopo, ma cambia il modo in cui riflettono la luce.

Si accendono.

Tutte le mele per me sono state lucidate.

O meglio, io non le vedo più come prima.

Le vedevo opache e non lo sapevo.

Ma non si sono accese le mele.

Si sono accesi gli occhi.

E all’improvviso tutte le mele riflettono.

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Verba Manent

 

Parole. Oggi più che mai, mi rendo conto di quanto le parole siano capaci di trasformare il mondo. Cambiare gli avvenimenti, o in maniera più sottile, cambiare il modo in cui li vediamo susseguirsi sulla scena della nostra vita. E cosa è mai, in fondo, una parola? Un contenitore vuoto, un suono asettico, dentro il quale trasferiamo concetti, sensazioni, emozioni. Spesso e volentieri diamo per scontato che il "pacchetto" che riceviamo da chi ci sta parlando, i valori che egli dà a quel suono, sia lo stesso che avremmo confezionato noi; in quei casi il più delle volte capita di rendersi conto che non c’è niente di più falso. Parole.

Ogni tanto incontro per la strada della mia vita parole (se non intere frasi) che sono rimaste vuote. Nel senso che hanno solo l’apparenza di un significato, ma in realtà sono un guscio dipinto, e dentro non c’è niente: in un certo senso mi fanno pena, costrette da chi le ha pronunciate a vagare senza messaggio. E magari addirittura a convincere qualcuno. La campagna elettorale è appena cominciata, e già sono stufo di ascoltare: è la contemplazione di uno stupro. Perché è questo che la parola subisce quando diventa uno strumento per sedurre (non convincere) la massa; quando viene piegata e distorta dalla retorica; quando non è portatrice di un’idea, ma solo del suo vago riflesso; quando suggerisce ma non esprime. E cosa ascoltiamo oggi? Da una parte la stessa minestra che abbiamo ascoltato nei cinque anni di governo della Destra, di una Destra che non si è fatta nemmeno la domanda se, dopo tanti anni nel frigo, quella minestra non sia un po’ acida. Be’ ve lo dico io: non è acida, è ammuffita. Dall’altra parte invece hanno rispolverato l’arte del antitesi e della conciliazione degli opposti: evidentemente non hanno molto da dire, o hanno paura di dirlo, se ogni qualvolta avanzano una proposta, subito sentono il bisogno di stemperarla, di spezzare una lancia in favore dell’idea opposta. Timore di una parola troppo incisiva? Di concetti troppo delimitati? Proprio come quelli che, indecisi se prendere Margherita (ogni riferimento a fatti o partiti realmente esistiti è puramente casuale) o Quattro Stagioni, restano inebetiti a guardare il menù, facendo aspettare amici e camerieri: insopportabili. 

Il demagogo, vuoi quello che riesce a venderti il prodotto superato spacciandolo per nuovo, vuoi quello che non ha da venderti niente ma ci prova lo stesso, non è un politico: è una puttana.  

Parole. Ne ho sentite tante, questo mese, che non avrei mai voluto sentire. Dolorose, destabilizzanti, inattese, inopportune perfino. Parole che creano, che plasmano realtà inedite. Il punto è che sono cose vere. Il verba volant è la più gran cazzata che mai sia stata pronunciata: ho smesso di crederci. Le parole non volano, costruiscono la realtà come e a volte anche più delle azioni: sono dannatamente reali. Pronunciane una al momento giusto, e guarda la tua vita che cambia. O la vita degli altri. E’ solo una successione di suoni che volano nell’aria. E’ solo la più grande invenzione del genere umano, l’arte di chiudere il mondo, di ricrearlo in un suono. Di ritrasmetterlo all’infinito. Ha una forza travolgente. Sebbene siano rari i momenti in cui ci si ferma a considerare la responsabilità delle proprie parole, diuna leva così potente nelle nostre mani.

Parole. Avrei voluto essere capace di pronunciarne alcune, ma sono rimasto schiacciato dal loro significato. Troppo grande. Troppo sconosciuto. Troppo "altrui". Poi mi è venuto in mente che forse non tutti danno il valore che do io alle parole. Io ne dico troppe e ogni tanto non ci sto attento, ma non tutte hanno lo stesso valore per me; ci sono certe parole che non uso, perché non me ne sento all’altezza. Forse, se le usassi, nessuno ci farebbe caso comunque, circondate come sarebbero, annegate nelle altre. Ma ci farei caso io: e mi sentirei di averle tradite.

 

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